Una leggera brezza dall’Est.

Una leggera brezza dall’Est.

Vengono a rubarci il lavoro; perché non se ne vanno nei loro paesi?” questa frase riversata con fastidio, alcuni giorni fa, sull’esterrefatto Safanne (l’onesto e dignitoso immigrato africano di cui abbiamo parlato tempo fa in questa rubrica), da una “distinta borghesuccia ” del quartiere, mentre riempiva il carrello al supermercato, mi ha fatto sobbalzare. Con modi non proprio garbati ho manifestato la mia contrarietà a questo atteggiamento argomentandola dal punto di vista etico, culturale e politico.

E’ singolare che mentre anche nel Nord Est si chiede di rivedere le quote di lavoratori stranieri per esigenze economiche, ogni tanto, in alcuni contesti, emergono i tratti di xenofobia latente imputabili, forse, più che a ragioni politiche, a quella “paura tribale”, presente nel profondo di chi, colpito dalla “sindrome dell’assedio”, teme di perdere la propria identità.

Il lavoro è, comunque, un diritto ed anche un dovere universale dell’uomo e dovrebbe prescindere da qualsiasi questione politica, razziale e religiosa.

Piuttosto bisognerebbe discutere di “quale lavoro” e di “quanto lavoro”.

Alle prime ore del mattino, quando mi reco a scuola, lungo il percorso, ad ogni rotonda, ad ogni incrocio intercetto filari di giovani “neri” in attesa di una chiamata: da, qualche tempo, ho notato anche in quel contesto, qualche rara presenza “bianca”. I tratti somatici tradiscono la provenienza dall’Est dell’Europa e vanno a sommarsi a quel drappello di donne che, già da tempo, anche nel nostro quartiere sono state assunte come “badanti”. Termine orribile che il comitato nazionale di bioetica, come abbiamo appreso, con nostro grande sollievo, ha chiesto di sopprimere. Però non è un termine innocuo; a mio parere nasconde una richiesta non molto confortante, di bassa qualità…..”badare” è molto diverso dal “prendersi cura”!

La caduta del muro di Berlino ha aperto le frontiere. Più che Dio, in una direzione, è entrato il mercato. Dall’altra direzione un vento impetuoso ha trascinato in tutta Europa, grosse fette di popolo alla ricerca di un’occupazione. Solo una leggera brezza ha, per ora, investito le nostre zone.

Nelle mie sistematiche soste in pescheria ho notato una presenza discreta, defilata, un giovane alto, chiaramente dell’Est, intento a pulire alici, orate, polpi, seppie, gamberi….che con una certa approssimazione tassonomica chiamiamo “pesce”.

Se non ti dispiace vorrei fare quattro chiacchiere con te. Ci dai qualche notizia sul tuo conto?

Mi chiamo Michele Balas, ho 20 anni e sono nato a Bucarest in Romania. Dopo aver acquisito il diploma di scuola superiore ho deciso di venire in Italia in cerca di lavoro ed ho lasciato a casa i miei genitori e mia sorella.

Quando hai lasciato la Romania? Com’è il dopo Ceaucescu?

Sono circa due anni che ho lasciato Bucarest ed ero troppo piccolo per ricordare i tragici avvenimenti di quegli anni. Si avverte un certo fermento, la capitale è un cantiere per abbattere i palazzi memoria del passato e per costruire nuovi palazzi in modo da prepararsi bene all’ingresso nell’Unione europea del 2007. Ma quando ho fatto la stessa domanda alla gente anziana, alla gente del popolo, spesso ho avuto questa risposta:”C’è più libertà, ma non ci sono più soldi!”

Sotto lo sguardo vigile e bonario di Stefano, il padrone della Pescheria, gli chiedo ancora: “Come ti trovi qui e come sei capitato a fare questo lavoro?”

Mi trovo bene anche se questo non penso debba essere il mio lavoro definitivo. Sono arrivato per caso e grazie all’aiuto di Stefano ho imparato a pulire con accortezza e celerità il pesce meritando gli elogi di parecchi clienti. Insomma il pesce per me non ha più segreti.

Qualche volta in Romania sono andato a pescare nel Mar Nero ed ho preso (sarà poi vero?) lo stesso pesce che trovate sul bancone.

Il banco con quei colori e quella frescura cattura immediatamente l’attenzione del cliente, ma se lo sguardo sale leggermente verso destra si trova una poesia firmata da un poeta locale, Ciro Buonocore, dal titolo “O curallo do mare” che è anche il nome della Pescheria.

Una poesia che Michele legge spesso e dice di comprenderla bene perché ormai è padrone anche della lingua napoletana.

 

Ncopp’ a stu banc spase o’ pesce frisco stà

ca manco nu pittore, ncoppe ‘a na tela, sapesse disegnà.

Guardandolo all’uocchi vuost, vedè ve pare, nu scenario e mare.

 

A cchiorme arrivano client tutt’e juorn

uommene, femmene, giovani e anziani

don Ciro, don Alfonso, don Peppe e don Aniello

trattano tutti quanti a Stefano comm’a nu cumpagniello.

Mentre sceglie o pesce, nu state a guardà o costo,

si vuie pigliate e spicole, alici oppure o baccalà,

Stefano da llà, già sape cadd’a fa,

doppe ca va l’ha tagliato a piezzo,

ve fa sparagna co peso, e pure n’copp’o prezzo.

 

Si mo vuie, sapè vulite sta piscaria

comme sta scritto for, pecchè si chiamm’accussì,

allora io mo vo conto, stateme a sentì.

Aggia sentute e dicere, da cierta gente e’ mare,

ca na bella sera, a luna pe se specchià a mare

a copp’o cielo e Napule, perdette nu curallo

da cullana ca purtava attuorno o cuollo.

 

Sotto ce stevo o viento ca pazziava cu l’acqua,

cuanno, all’improvviso, o poco e brezza,

vuttanno stu curallo proprio int’a na rezza.

O juorn appresso, o piscatore, ancora frisco e rezza,

spannette n’coppo o banco sta ricchezza,

e miezz’e culture, e migliaro e pisce,

e tutte specie, gruosse ‘e piccirilli,

 

luceva stu curallo cchiù de ciento perle

e mo, m’avita credere, si vuie ccà foro

venite pure quando è chiuso a sera,

sentite addore e mare, e o canto de sirene.

 

Dopo questo bagno purificatore nell’acqua di mare vorrei soltanto ricordare che il mare unisce, è praticamente senza confini; nella nostra mente, nella nostra cultura si è sedimentato,invece, un concetto di identità aggressivo ed escludente che ci spinge “a battere il pugno sul tavolo contro gli estranei che sono o si affacciano tra noi”. E ciò è l’antitesi del messaggio di fratellanza universale proposto dal Cristo. Un messaggio che esclude la categoria dello straniero, un messaggio di condivisione. Anche il lavoro andrebbe condiviso!

Aldo Bifulco

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